Durante il consiglio comunale di lunedì scorso, la destra ha perso l’occasione, forse volutamente, di trattare con equilibrio e responsabilità una pagina dolorosa della storia italiana. La mozione per intitolare una targa a Sergio Ramelli, presentata dalla Lega con toni apparentemente istituzionali, si è presto rivelata per ciò che era: un’operazione identitaria e provocatoria, tutta interna al bisogno della destra di piantare una bandiera e non certo di costruire memoria condivisa.

A confermarlo, gli interventi che si sono susseguiti prima in commissione e poi in aula: nessuna volontà di contestualizzare storicamente, nessun reale slancio verso una riflessione comune. Solo accuse, revisionismi e una serie di provocazioni culminate in un passaggio particolarmente grave, in cui è stato riscritto in modo distorto un episodio drammatico legato alla figura del pistoiese Giancarlo Niccolai, trasformandolo in un attacco diretto alla Cgil e al consigliere Fragai, accostati senza mezzi termini al terrorismo degli anni di piombo.

Una forzatura inaccettabile, che offende non solo il ricordo di una vicenda tragica della storia cittadina, ma anche il ruolo che il sindacato e le forze democratiche hanno avuto nella difesa della legalità e nella lotta alla violenza politica. Un passaggio grave, indegno di un’aula istituzionale, sul quale né il sindaco né alcun esponente della maggioranza ha sentito il dovere di intervenire. Tomasi era presente, ha ascoltato tutto e ha scelto il silenzio. Anche i civici, sempre pronti a professare la loro autonomia, hanno invece confermato la loro subalternità politica, accodandosi senza distinguo.

Non accettiamo la retorica della “memoria negata alla destra”. Nessuno ha mai messo in discussione il dovere di ricordare Sergio Ramelli: era un ragazzo, ucciso da una violenza cieca, ingiustificabile ed inaccettabile. Ma adesso viene usato come strumento per affermare un’identità politica, non per interrogare collettivamente la storia. Ramelli non ha chiesto di essere un vessillo: è la destra, purtroppo soprattutto quella più estrema, ad averlo reso tale.

La memoria non si costruisce dividendo le vittime in buoni e cattivi, non si impone a colpi di maggioranza e non si trasforma in uno scontro tra tribù. Le pagine più dure della nostra storia si onorano insieme, non con una lista selettiva dei caduti “nostri”. Non c’è bisogno di classifiche del dolore, c’è bisogno di una memoria pubblica onesta, plurale, capace di dire che la violenza politica ha colpito da ogni parte, e che ogni vittima merita rispetto senza eccezioni, senza bandiere.

È la destra che ha bisogno di sentirsi vittima per rafforzare il proprio racconto. Chi ci accusa di “doppiopesismo” dimostra di non avere argomenti e di non tollerare chi non si accoda. Ma non c’è nessun doppio standard nel pretendere che la memoria sia un terreno comune e il Consiglio comunale non venga trasformato in un campo di battaglia dove regolare conti ideologici o dove piantare bandiere. Se c’è un dovere, oggi, è quello di evitare che i simboli diventino armi. Su questo principio il Partito Democratico non farà passi indietro.